Vanilla Avenger, Harry Potter, Pansy parkinson centric.

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Astral;
view post Posted on 15/8/2010, 12:56




Vanilla Avenger




Tic. Tic. Tic.

Un picchiettio insistente, nevrotico quasi, riecheggiava indisturbato tra le mura in pietra dei sotterranei.

Si spandeva tra i corridoi angusti e freddi, intrisi disgustosamente dell’odore acre e acido della muffa che aveva prolificato in quel luogo dimenticato da Dio.

Le finestre erano pressoché inesistenti e l’aria ristagnava ammorbando i polmoni di chi vi entrava.

Il rumore sordo delle unghie perfettamente laccate in nero scandiva i minuti, i secondi, propagandosi dalla pietra scura e grezza della panca rettangolare.

La schiena eretta, la testa alta.

Una regina nera tra quegli straccioni rinchiusi con lei.

Gente che non aveva avuto nulla da perdere a finire lì dentro, che non aveva speranze per il proprio futuro.

Niente sogni, niente progetti.

L’orologio in platino e diamanti da borsa, segnava le sei del pomeriggio, aveva appena perso l’appuntamento con la sua manicure.

Ma lei ne aveva davvero progetti, sogni?

Li aveva forse perduti senza neanche rendersene conto.

Il rumore di alcuni passi le giunse dal fondo.

Un soffice aroma di vaniglia carezzò le sue narici facendola sorridere amaramente.

Gli altri prigionieri non si interessarono neppure di quella nuova presenza.

L’indifferenza era l’unica arma che restava a quei condannati per Azkaban, che attendevano nei sotterranei bui del Ministero, prima di intraprendere il proprio ultimo viaggio.

L’unico modo per non pensare alla morte, all’orrore dei Dissennatori.

Lo scalpiccio era forte.

Non veniva solo, questo era chiaro. Non lo era ormai da tanto tempo.

Un cigolio precedette il suo ingresso nella cella.

-E’ in onore dei vecchi tempi?-

La sua voce suonava provocatoria, cadenzata, studiata in ogni singola modulazione.

-Immagino di no…-continuò senza attendere una risposta.

Le mani affusolate afferrarono la tazza colma di caffè aromatizzato alla vaniglia, portandolo lentamente alle labbra vermiglie.

Le schiuse, senza mai smettere di guardarlo dritto negli occhi.

Profondi come abissi inesplorati.

E neri..

Come il velluto scuro di una notte in tempesta

Come il mantello della Signora eterna.

Come il dolore.

Due perle nere che senza esitazione intrappolavano le proprie vittime, le invischiavano nella propria pece scura.

Gli occhi plumbei di Draco corsero sulla la figura della donna perduti nei ricordi, intenti a ricercare una traccia di ciò che lui stesso era stato.

Bella e glaciale, come un fiocco di neve stretto in un abito in pizzo e tulle nero, stile gotico.

La scollatura a fascia mostrava senza pudore il seno generoso, nel cui incavo mille fili scuri si facevano strada.

Lucidi e curati. Profumavano di mirra. Né troppo dolce, né troppo acre.

Piegò le labbra di geranio nel sentire addosso quello sguardo.

-Cosa cerchi? Ti sei perduto?- disse socchiudendo le ciglia come un gatto assonnato

Ti sei perduto…

Shackelbot Kinglsey, avvolto nel suo abito blu damascato, poggiò scostante una mano sulla spalla di Malfoy.

Un folto gruppo di Auror accompagnava il rampollo biondo dell’ormai decaduta famiglia di purosangue.

Venduto.

Si era venduto al Ministero per la salvezza beata della propria coscienza, pensò Lady Zabini senza mezzi termini.

La principessa altezzosa di Serpeverde invece era rimasta fedele a se stessa.

Alle proprie origini.

Al proprio sangue, puro come mille miniere d’oro splendente.

Come quello che ancora impregnava le sue mani sottili e col quale aveva imbrattato la tazza chiara di caffé.

Denso, si era infilato sotto le sue unghie, le era colato sulle braccia, mentre si beava della propria vendetta.

Il suo vecchio compagno di casa scosse la testa vigorosamente, mentre Scrimgeour gli bisbigliava qualcosa all’orecchio destro.

La guardò di nuovo.

Non c’era disprezzo. Pena, compassione.

L’Auror Malfoy la guardava con pietà.

Pansy Parkinson rise senza umanità a quella scena surreale.

Una risata piena, convulsa, arrabbiata.

Infame come un urlo, le si strascicò tra le corde vocali, stridendo nella gola e poi nell’aria circostante.

Investendo gli spettatori che oltre le sbarre la osservavano come un animale allo zoo.

L’incarnazione dell’odio, del rancore, che aveva allevato nel grembo per giorni, settimane, anni.

Che aveva portato sangue rubino alle sue mani.

-Siete voi a farmi pena…i buoni!- un'altra risata leggera si librò come uno stormo di corvi dalla sua bocca

Le labbra carnose di Lady Zabini si piegarono gelidamente agli angoli, formando due pieghe sulle guance pesantemente truccate.

Lasciò andare lentamente indietro la testa corvina, senza mai smettere di studiare ironica gli Auror che le stavano di fronte.

-Signora Zabini…-

-Parkinson, prego…- corresse il Capo del Dipartimento con voce irritata

-Signora Parkinson, lei verrà trasferita per ordine supremo del Winzegamot alla prigione di Azkaban, e sotto richiesta della famiglia di suo marito, verrà sottoposta alla pena di morte dai Dissennatori, una sua eventuale istanza di grazia verrà esaminata dai membri della Corte Superiore visto che il crimine…-

-Da lei perpetrato non è solitamente sottoposto a tale genere di pena- scimmiottò con le moine di una bimba viziata.

La voce di Scrimgeour continuò vuota ad elencare particolari che conosceva già alla perfezione.

Certamente meglio di quel gruppo di buonisti senza speranze.

Evidentemente la credevano così stupida da non aver valutato rischi, conseguenza, pene, prima di agire.

Perdenti.

La bella favola del cattivo messo in gabbia per un passo falso, potevano anche chiuderla a chiave in uno di quei bei cassetti che facevano la loro figura nell’ufficio di Sua Maestà il Ministro della Magia.

Sapeva perché era lì. Sapeva cosa l’aspettava.

E sinceramente non gliene poteva importare di meno.

Impassibile tornò a fissarsi le lunghe unghie squadrate.

L’unico errore era stato non anticipare l’appuntamento con quell’incapace della manicure, ma tanto si sarebbero rovinate comunque.

-Possiamo andare anche subito…- mormorò senza esitazione- non mi importa richiedere la grazia…non ho bisogno di scappare- replicò incastonando le proprie iridi ossidiana in due pozze argentee a lei tanto conosciute.

Che si agisca nella luce del Bene o nell’oblio stordente del Male, la convinzione è ciò che conta.

E Pansy Parkinson non aveva dubitato un attimo.

Non aveva provato il minimo scrupolo nel compiere il proprio…dovere.

Sì, come una missione, una strategia, che aveva accuratamente pianificato per anni.

La vendetta è come un vino pregiato, una buona vecchia annata di Bordeaux.

Purpurea per il sangue che aveva fatto scorrere, lenta da degustare per poterne assorbire ogni aroma, ogni sfumatura.

Adatta solo a quegli eletti che sanno bearsene e apprezzarne l’essenza.

Aveva atteso cinque anni prima di affondare un pugnale nelle carni di quel maledetto.

Senza fretta, senza incostanza.

Lentamente, per non perdersi neanche un mugolio, un grido di dolore, di sofferenza del caro consorte, nel sentirsi lacerare dalla lama affilata.

Avrebbe potuto ucciderlo in un momento qualsiasi.

Ma nulla Pansy aveva voluto lasciar al caso.

Voleva essere sicura che il merito di ogni sua supplica le fosse dovuto e concesso.

Appagata dall’ebbrezza dei suoi occhi scuri dilatati e sempre più spenti.

Aveva atteso un lustro intero al suo fianco prima di coglierlo alle spalle e freddarlo come meritava.

Strisciando per anni, lussuriosa tra le spire del tradimento.

Poi finalmente aveva scelto.

Gli aveva inferto la prima ferita ad arte per non ucciderlo.

Si era accasciato sulla poltrona in pelle nera che tanto adorava, dove mille volte l’aveva costretta al sesso.

E lei si era lasciata andare, simulando gemiti ricchi di un’eccitazione inesistente.

Sorridendo ad ogni amplesso solo nell’immaginare il suo cadavere riverso in una pozza di sangue.

La lama era passata più e più volte sul suo torace ferendolo appena, poi con fendenti sempre più profondi.

Infine la gola.

Vi aveva adagiato il pugnale, mentre comodamente stava sdraiata su di lui e macchiava la propria veste in raso verde smeraldo.

Aveva accarezzato la barba leggermente sfatta col metallo luccicante, mentre Blaise in preda alle convulsioni traboccava sangue dalle proprie labbra violacee.

-Finalmente riesci a farmi godere Zabini, ce ne hai messo di tempo…- aveva sussurrato maligna sul suo viso atterrito.

Paura. Il maledetto aveva paura.

La supplicava.

Le chiedeva di ragionare.

Chissà se suo padre aveva implorato pietà quando si era trovato davanti ai Dissennatori.

Tradito dal proprio genero. Lo aveva venduto per salvarsi la pelle.

Un taglio netto alla carotide aveva finalmente chiuso quella storia. Per sempre.

Si era alzata facendo scivolare sul pavimento la sottoveste verde.

Aveva indossato quel bel vestito nero fasciato.

Poi paziente aveva atteso le urla. Le minacce.

L’arrivo degli Auror.

Seduta tranquillamente sulla poltrona di fronte a quella preferita dal caro consorte.

Uxoricidio.

Pansy scostò gli occhi dal soffitto annerito per l’umidità che le era parso più interessante dello sproloquio inutile di Scrimgeour.

Lo posò irriverente su Draco.

Almeno Blaise era rimasto fedele agli Slytherin, sempre e comunque.

Nel tradimento. Nella morte.

Due giovani Auror scortarono Miss Parkinson al di fuori dei sotterranei del Ministero, senza manette, come Draco era riuscito a farle concedere.

Alta e fiera come una Regina dei dannati falcò l’ingresso dell’immensa prigione di Azkaban.

Alle 19:00 in punto di quello stesso giorno, Pansy Parkinson fu sottoposta al Bacio del Dissennatore su insistenza di Lady Zabini, la madre di Blaise.

Nessuno sentì urla, lamentele, compassionevoli suppliche.

Rigida come una statua di ghiaccio affrontò la propria morte, il proprio supplizio.

Risentì le grida del genitore quando aveva subito la stessa pena per colpa dell’uomo che lei poi aveva ucciso.

-Buonasera padre…-sussurrò appena.

Poi si accasciò senza vita al suolo.

Una raffica di vento attraversò il cortile desolato della prigione dove il silenzio regnava sovrano, portando con sé un ultimo alito di vaniglia e mirra oltre l’oceano di quell’isola di morte.

“Di inganno periremo così come uccidemmo” Coefore, Sofocle


 
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